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I MOTIVI PER CUI IL PIL ITALIANO NON PUO’ CRESCERE
L’attenzione del mondo è centrata sulle economie occidentali e sulla loro capacità di sostenere un debito pubblico molto elevato, con il rischio di continui declassamenti dello stato e dei suoi “attori” dell’economia.
Le strade maggiormente percorse sono due, la prima, una forsennata ricerca di ricette per far crescere il PIL, la seconda, come diminuire le prestazioni dello stato sociale senza intaccare il consenso.
Come Popolari siamo fermamente contrari alla riduzione dello stato sociale, anche in considerazione che l’attuale livello dei servizi erogati può essere mantenuto, favorendo progetti basati sulla sussidiarietà orizzontale, come dimostrato da alcune iniziative che abbiamo portato avanti come Popolari, escluso l’assistenza ospedaliera che deve rimanere una competenza precipua dello stato.
Riguardo alla situazione italiana per potere fare delle proposte efficaci occorre ripensare a come nei vari anni questa situazione sia così degenerata, prendendo in esame sia la spesa che il PIL.
I mali che hanno causato l’enorme debito pubblico vengono da lontano.
La teoria del welfare propone che lo stato possa indebitarsi per favorire la realizzazione di progetti di interesse generale, che abbiano una ricaduta occupazionale, capaci di far aumentare la ricchezza media collettiva, con il risultato di un aumento delle entrate fiscali necessarie al ripianamento del debito.
Per una Repubblica parlamentare fondata sui partiti, bisognosi di consenso elettorale, la teoria del welfare era la ricetta giusta.
La teoria permetteva di creare un circolo virtuoso dove il debito pubblico portava più investimenti, più investimenti creavano più occupazione, più occupazione creava più consenso, il consenso permetteva ai partiti di continuare a governare.
Questo sistema ha retto finché il disavanzo del bilancio invece di essere destinato agli investimenti venne destinato al pagamento degli interessi per il debito contratto con i possessori di BOT e CCT.
Quel nuovo scenario mise in difficoltà i partiti che si trovarono per alcuni anni senza possibilità di distribuire posti di lavoro necessari a garantire il consenso ottenuto precedentemente.
Il sistema produttivo stava “cambiando pelle” l’automazione richiedeva sempre meno manodopera.
In quella fase avvenne un cambiamento culturale all’interno del sistema politico, alla persona si offriva non più un lavoro ma un posto dove percepire uno stipendio, in quella fase si cominciò a passare dalla cultura del lavoratore alla cultura dell’occupato, e si iniziò a parlare di terziario.
Questa trasformazione avvenne negli anni ’70, prima con l’avvio delle Regioni a statuto ordinario nel 1970 e successivamente della riforma sanitaria nel 1978.
I partiti si erano preparati due grandi bacini da occupare politicamente in grado di erogare decine di migliaia di posti.
Le Regioni a statuto ordinario che avrebbero dovuto essere degli Enti di programmazione per favorire lo sviluppo territoriale, con il tempo hanno assunto tutti i connotati di quello Stato burocratico e pletorico di cui avrebbero dovuto limitare l’ingerenza.
La riforma sanitaria, fatta decollare in Italia, quando l’Inghilterra la stava cambiando per i risultati disastrosi raggiunti, con la motivazione di estendere l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini, ha permesso l’occupazione del sistema sanitario nazionale da parte di tutti i partiti, con l’arricchimento di coloro che sono partecipi del sistema, ma con la conseguenza che il bilancio delle regioni è quasi tutto destinato alla sanità a detrimento delle politiche per lo sviluppo.
Non destinando risorse agli investimenti ma a politiche assistenziali, qualche volta parassitarie, non si produce più quella ricchezza, figlia del valore aggiunto creato dal lavoro, necessario a far crescere il PIL di un paese, che per muoversi si deve essere agganciato non più alla crescita produttiva ma all’aumento delle tariffe dei servizi.
22 Settembre 2011.