Corrado Tocci

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GIOVANI: LAVORO, DISOCCUPAZIONE E VISIONE SCOLASTICA DELLA FORMAZIONE

La percentuale dei giovani che non trovano lavoro è in continuo aumento e ogni qualvolta che l’Istat pubblica i dati inizia la solita “liturgia” delle dichiarazioni. Terminato la fase calda tutto torna come prima e il Paese del “magari” torna a sperare “nella provvidenza” che con un tocco di bacchetta magica possa risolvere il problema.

Dai discorsi che si fanno intorno al “dramma” della disoccupazione giovanile come Popolari ci rendiamo conto che c’è un mix tra confusione e scarsa conoscenza del problema, per questo vogliamo portare il nostro contributo cercando di fare il punto sulla stato dell’arte della formazione professionale nel nostro Paese e sulle motivazioni che hanno “ingessato” il settore.

L’apprendistato nel nostro Paese era regolamentato dalla legge n. 25 del 1956, che prevedeva che il mestiere si imparasse sul luogo di lavoro e la normativa prevedeva tutta una serie di salvaguardie a tutela della salute e della sicurezza per il ragazzo che si inseriva nella bottega o nella fabbrica.

L’impresa che assumeva l’apprendista era obbligata solamente a garantire l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.

Grazie a questa legge si formarono milioni di giovani nelle botteghe artigiane, molti dei quali successivamente sono andati a lavorare in fabbrica garantendo un flusso continuo di manodopera qualificata, che ha permesso al nostro sistema industriale di decollare più velocemente.

La produttività sociale del sistema “apprendistato” era molto alta, si formavano centinaia di migliaia di giovani l’anno, una parte rimaneva a lavorare nella bottega, una parte entrava in fabbrica, una parte apriva un’attività in proprio, e alcuni non abbandonavano il mestiere ma entravano nelle strutture di servizio della pubblica amministrazione.

Con il decollo delle Regioni a statuto ordinario tra le diverse materie di competenza regionale previste dal Titolo V della Costituzione c’è anche la formazione professionale.

Fino ad allora al Ministero del Lavoro c’era una Direzione che si interessava di formazione per gli apprendisti che finanziava gli Enti istituzionali di diritto privato dei tre settori, INIASA per l’artigianato, INAPLI per l’industria e ENALC per il commercio, a questi Enti se ne affiancavano alcuni di ispirazione sindacale o religiosa.

Con l’istituzione delle Regioni si passava dal concetto di apprendistato, centrato sul mestiere, al concetto di formazione centrato sulla persona che oltre ad imparare un mestiere impara anche ad essere cittadino.

Storicamente si completava la riforma del sistema educativo iniziato con la riforma della scuola media inferiore, che aveva soppresso l’avviamento commerciale. Con il passaggio della delega dallo Stato alle Regioni venne emanata la legge quadro della formazione professionale.

Contemporaneamente la figura dell’apprendista assunse una valenza diversa. Fino ad allora l’apprendista non era remunerato contrattualmente e la durata dell’apprendistato variava da mestiere a mestiere, dipendeva dalla complessità delle conoscenze e competenze da acquisire. La figura dell’apprendista passava dalla visione formativa collegata alla bottega artigiana a quella della catena di montaggio della visione fordista del processo produttivo industriale, dove servivano meno competenze.

Tutti questi cambiamenti hanno portato alla ristrutturazione del settore da parte delle Regioni. Il settore della formazione professionale si è sempre più burocratizzato, avvicinandosi sempre più, come parente povero, al sistema scolastico.

I difetti del sistema scolastico e del suo scollamento dal sistema sociale e produttivo si sono amplificati nella formazione professionale che aveva il compito di collegare il mondo giovanile al mondo produttivo. Con il passare del tempo e la burocratizzazione del sistema, favorita anche da normative europee, il settore ha perso di vista l’obiettivo sociale della sua funzione istituzionale, si è chiuso in se stesso con politiche corporative a difesa degli operatori che ci lavoravano, perdendo di vista i fini occupazionali. Le opportunità occupazionali per la maggior parte dei corsi finanziati si sono fermate alle buone intenzioni scritte nei progetti.

Il sistema artigiano, che aveva permesso a milioni di giovani di imparare un mestiere viene messo all’angolo da una serie di scelte politiche:

  • la prima, l’assunzione di un apprendista prevede il salario minimo all’ingresso previsto dai contratti nazionali di lavoro, che aumenta nei mesi successivi, questo costo non è sostenibile dall’artigiano sia sul piano finanziario che culturale;
  • la seconda, la complessità delle procedure per l’assunzione di un apprendista ha comportato anche degli appesantimenti burocratici collegati, non ultimo quello relativo alle ispezioni che gli organi preposti effettuavano sui luoghi di lavoro, questo aspetto merita un capitolo a parte dato che una legislazione, anche se giusta sul piano del principio, non tiene minimamente conto della situazione reale di molte botteghe artigiane, ma ancora più grave è il comportamento del sistema burocratico ispettivo che invece di accompagnare la crescita di queste imprese cercando di farle adeguare con il tempo alla normativa, redigono immediatamente verbali sanzionando le carenze rilevate;
  • la terza riguarda il valore dell’attestato rilasciato,  per cui un giovane che frequenta un corso di formazione per pochi mesi, sul piano formale riceve un attestato equivalente a quel giovane che da diciotto a trentasei mesi lavora in un’azienda dello stesso settore, con l’ulteriore differenza che l’attestato rilasciato dalla formazione professionale regionale da diritto a mezzo punto per in concorsi pubblici.

Con il passare degli anni il sistema formativo si è sempre più burocratizzato e “chiuso a riccio” a difesa della corporazione degli Enti di formazione professionale. Il colpo di grazia al settore è stato dato dal sistema di accreditamento regionale che ha garantito all’esistente di perpetuarsi, annullando quasi del tuttora la concorrenza. Contemporaneamente l’innalzamento dell’obbligo formativo ha permesso al sistema scolastico di ritagliarsi un ruolo nel settore formativo.

Mentre il sistema burocratico e corporativo del settore acquisiva posizioni di potere e di vantaggio competitivo, il sistema produttivo per funzionare doveva ricorrere alla assunzione di milioni di lavoratori provenienti da altri Paesi.

Alcune Regioni si sono poste il problema sulla mancanza di collegamento con il sistema produttivo e hanno approvato leggi sul riconoscimento della “bottega artigiana” come struttura formativa, come la Regione Abruzzo, purtroppo queste leggi sono rimaste sulla carta, dato che non sono stati attivati i regolamenti e i relativi finanziamenti.

Oggi il sistema è nello stallo più totale. Ci sono Regioni che hanno dovuto prevedere la cassa integrazione per i dipendenti degli Enti di formazione professionale, altre Regioni che hanno irrigidito il sistema tanto che è diventato difficile fare della formazione riconosciuta finanziata dai privati, obbligando a fare formazione con titoli non riconosciuti che concorrono al diffondersi della cultura della liberalizzazione di titoli. Le imprese non hanno nessuna intenzione di accollarsi il costo di un apprendista in un momento in cui incontrano difficoltà a mantenere i posti di lavoro ai propri dipendenti. Non è con i vaucer formativi, i tirocini o gli stage che si rivitalizza il settore, tutte queste nuove figure servono solo a garantire il posto e la funzione alla burocrazia. Perché non fare l’esperimento di derogare dai contratti nazionali di lavoro, per quanto riguarda gli apprendisti, per un periodo sperimentale, prevedendo il costo finanziario per i primi sei mesi a carico del Fondo Sociale Europeo?

Oggi il dibattito dovrebbe vertere non su come licenziare ma su come dar vita a proposte che permettano di assumere, sgretolando l’attuale sistema di ingresso nel mondo del lavoro talmente sclerotizzato che favorisce solo chiacchiere e non fatti.

06 ottobre 2012      


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